Ho avuto il piacere di visitare lo studio di Basili. Una grande scrivania e sopra pennelli di diverse misure e soprattutto tantissimi tubetti di colore sistemati in verticale, uno di fianco all’altro, come una schiera di soldati sempre pronti a combattere contro la grigia banalità del quotidiano. Tubetti esposti con un ordine che sembra nascondere un senso che va oltre la loro natura materiale, come se fossero essi stessi un’istallazione artistica.

Lo studio è un’esplosione di colore: gialli, rossi, verdi, blu, l’intero arcobaleno dipinto e pulsante, la sensazione che quei tubetti si siano arrampicati sulle tele appese alle pareti e ci abbiano impresso il loro pensiero per poi tornare a disporsi ordinatamente sopra la scrivania.

Ovvio: il colore è il protagonista del lavoro di Basili. C’è anche il discorso materico, ma è sempre funzionale. E’ sul colore che gioca la sua partita quest’artista. Il colore è di per sé una rappresentazione del mondo, ce lo hanno insegnato tanti grandi Maestri, da Bellini a Tiepolo, dagli impressionisti ad Albers, fino a Spalletti e De Marco.

Colpisce il rigore e la pulizia del lavoro di Basili. Egli usa il colore con un’autonomia simbolica che lo sgancia da qualsiasi riferimento realistico. La ricerca è puramente concettuale, non ha nulla di romantico o espressionista. Basili indaga chirurgicamente la geometria del colore, astrae il simbolo, pigmento dopo pigmento e componendo l’opera restituisce unicità alla molteplicità. Alla fine quelle macchie e tutti quei puntini di colore, guardandoli più attentamente, siamo noi, miliardi di individui pieni di speranze e paure, ammassati dentro una superficie che sembra voler uscire dalla rappresentazione per farsi realtà. Quello di Basili è un mondo in cui convivono solarità e inquietudine, esplosività e frustrazione, vivacità e compostezza, luminosità e mistero, concretezza e virtualità. Sul filo della contraddizione ci prende per mano e ci accompagna nell’inesauribile mondo della rappresentazione.

Mi viene in mente un fotogramma di “E la nave va”.
Il classico orizzonte in cui la finzione viene esplicitamente messa in scena, come solo Fellini sapeva fare. Sullo sfondo c’è una palla arancione disegnata su un velo di plastica. “Che bel tramonto” dice uno dei protagonisti. “Sembra finto!”.
“Che bei petali!” esclamerà il visitatore della mostra di Basili ben sapendo che quelli non sono petali, ma rappresentazioni di petali. Pennellate veloci e meditate più vere e resistenti di un petalo, perché rappresentano un’idea di petalo e le idee a differenza dei petali che troviamo in natura non appassiscono. E allora ancora una volta ho la conferma che l’arte ci pone le stesse domande da quando l’uomo faceva graffiti nelle caverne. Che cos’è la realtà? Quando comincia la rappresentazione? Basili stesso ce lo sta chiedendo. Attraverso questi puntini di colore, questi petali, queste chiazze materiche. Quanto di ciò che percepiamo esiste? Quanto di ciò che non percepiamo esiste? Dove finisce la percezione? Dove nasce l’immaginazione?

E tornano in mente i tubetti di colore della sua scrivania che di notte si arrampicano alle pareti fino a farsi quadro e giocando con la pittura ci insinuano il dubbio che dietro il colore e la sua iconografia di vitalità ed energia, si nasconda qualcosa di più complesso e umano.

Ce lo ha detto Klee, l’arte deve rendere visibile l’invisibile. E per farlo deve innanzitutto interrogarci sul rapporto tra realtà e rappresentazione. Basili ha capito che il colore, con le sue arcane geometrie, resta un solido ponte tra questi due mondi.

David Miliozzi